Per Fascismo s’intendono in primo luogo e soprattutto il
movimento che faceva capo a Mussolini, sorto in Italia
durante la crisi seguita al primo conflitto mondiale,
rapidamente rafforzatosi nel contrasto con la Sinistra e
giunto al potere nel 1922; In secondo luogo l’ordinamento
statale da lui istituito da tale data.
Nonostante le sue molte e varie innovazioni il Fascismo
si è mantenuto nel solco della tradizione del preesistente
Nazionalismo e del suo Imperialismo mediterraneo; non ha
perciò, tutto sommato, rappresentato uno sconvolgimento
politico sociale così profondo come il Nazionalsocialismo
che, pur rifacendosi in apparenza al medesimo modello, lo
ha invece operato mediante il razzismo e i suoi progetti
di predominio mondiale.
Il Fascismo, il quale seppe adottare, per giungere al
potere, tecniche pseudodemocratiche, ha dominato l’Italia
dal 28 ottobre 1922, data della
marcia su Roma e della
nomina di Mussolini a capo del governo, al 25 luglio 1943,
quando egli fu esautorato dai suoi gerarchi e dal re dopo
lo sbarco degli
Alleati in Sicilia;
ventennio che è suddivisibile in tre diversi
periodi:
1) La presa del potere (1922-25)
I primi governi Mussolini
Nella prima fase, l’impostazione
nazionalistica e
totalitaria dei governi Mussolini si espresse senza una
violazione delle forme della democrazia parlamentare
assicurata dallo
Statuto albertino,
benché dilagasse impunemente la violenza delle
“squadre d’azione” fasciste. Gli
interventi energici del governo in politica estera,
nell’intimidazione degli oppositori mediante arresti
arbitrari, nella repressione del movimento sindacale
(soprattutto all’interno dell’amministrazione
pubblica) e nel ritorno al liberismo gli guadagnarono le
simpatie di gran parte della pubblica opinione, stanca o
spaventata per le continue turbolenze sociali del triennio
seguito alla fine della
prima guerra mondiale
e convinta che la sostanza autoritaria e poliziesca del
modo in cui quella politica veniva attuata fosse
transitoria. Ma già nel 1923 le misure repressive e
poliziesche e la costituzione della Milizia volontaria per
la sicurezza nazionale cominciarono ad alienare a
Mussolini le simpatie dei liberali e di molti cattolici
popolari.
Il regime totalitario
Sempre nel 1923 fu modificato il sistema elettorale con
la legge Acerbo per garantire alla lista governativa la
maggioranza dei deputati. L’esito delle elezioni
politiche del 1924 fu duramente contestato da
Giacomo Matteotti,
deputato socialista che in un discorso al Parlamento
denunciò le violenze e i brogli commessi dai fascisti:
pochi giorni dopo egli fu trovato ucciso. Dalla grave
crisi che ne conseguì, minacciando lo stesso governo,
Mussolini uscì addirittura rafforzato. Sia gli oppositori
legati al vecchio regime giolittiano (che si appellarono
al re, ritirandosi dalla Camera; sia quelli che – come
comunisti, socialisti e popolari – contendevano al
fascismo la rappresentanza delle masse, ma si
contrastavano tra loro, furono incapaci di presentare
un’alternativa seria. Con il discorso del 3 gennaio
1925 il “duce” si assunse la piena
responsabilità delle illegalità fasciste ed esautorò il
Parlamento.
Con le leggi eccezionali del 1925-26 fu realizzato senza
opposizioni lo stato totalitario: furono sciolti tutti i
partiti, espulsi dalla Camera i deputati antifascisti,
vietato lo sciopero, messi al bando i sindacati non
fascisti; fu approvata una nuova legge elettorale che
prevedeva una lista unica, governativa; venne introdotta
la pena di morte e istituito il Tribunale speciale per la
difesa dello stato, incaricato di reprimere ogni forma di
dissenso. Molti esponenti dell’antifascismo
emigrarono all’estero, in particolare a Parigi.
Migliaia di oppositori, in maggioranza socialisti e
comunisti, subirono pesanti condanne al carcere e al
confino per reati di opinione o per attività
antigovernative. Le uniche condanne a morte eseguite
furono quelle contro
irredentisti
sloveni.
La politica economica fu indirizzata in senso
protezionistico, con un rafforzamento della lira (fissata
a “quota 90” rispetto alla sterlina) e con la
“battaglia del grano”, che diffuse
forzosamente la coltura dei cereali.
2) Il consolidamento e il vasto consenso
(1926-1935/36)
Gli anni del consenso
Con i
Patti lateranensi nel
1929 fu chiuso il conflitto tra Stato italiano e Chiesa
cattolica: il Vaticano veniva riconosciuto come stato
indipendente e il
cattolicesimo veniva
dichiarato religione ufficiale. Nel paese, tranne una
ristretta minoranza di anticlericali, il successo di
questa iniziativa diplomatica fu immenso. Da quel momento
al regime fascista fu assicurato il sostegno della Santa
Sede e del clero.
Gli effetti della
Grande Depressione del
1929 giunsero in Italia l’anno successivo. Il
governo ricorse a misure di difesa della produzione
nazionale, all’insegna dell’autarchia. Fu varato un piano di opere pubbliche e di risanamento
dell’agricoltura (bonifica dell’Agro Pontino, sventramenti e ammodernamento delle principali città).
Ma la vera novità fu l’intervento diretto dello
Stato nell’economia. Nel 1933 fu fondato
l’IRI,
finanziato dallo Stato allo scopo di salvare banche e
industrie di importanza strategica, che divennero
proprietà pubblica. Tra il 1934 e il 1936 fu varata la
riforma del sistema bancario che fu posto sotto il
controllo della
Banca d’Italia.
Le relazioni sindacali furono regolate col ricorso al
corporativismo. Alle
corporazioni, create
nel 1933, erano obbligatoriamente associate le diverse
figure della produzione. In quegli anni il fascismo diede
organicità, carattere pubblico e dimensioni di massa
all’assistenza sociale con una serie di misure:
sistema pensionistico, settimana ufficiale di quaranta
ore, sabato semifestivo, ferie, dopolavoro ricreativi,
assistenza alla maternità e all’infanzia, promozione
dell’associazionismo culturale e sportivo nelle
fabbriche e nelle scuole.
La politica culturale ufficiale tentò di orientare gli
italiani in senso nazionalistico e bellicistico. I giovani
venivano addestrati alla disciplina, all’esercizio
della forza fisica e al senso dell’obbedienza,
attraverso manifestazioni sportive e sfilate simili alle
parate militari. Stampa, cinema e radio furono soggetti
alla censura, con cui
si impediva la circolazione di notizie che potessero
danneggiare l’immagine dell’Italia sotto il
regime fascista, ma anche a un’azione attiva
condotta da un apposito organismo burocratico, il
ministero della Cultura Popolare.
La politica estera fascista, per quanto con qualche
esibizione di muscoli, per oltre un decennio rimase
ancorata al sistema uscito dalla conferenza di pace di
Versailles del 1919 e
alle alleanze della prima guerra mondiale. Ma
l’ideologia nazionalista e la politica autarchica,
che indirizzavano gran parte della produzione industriale
verso gli armamenti, nonché la politica culturale e
demografica indirizzata alla guerra, comportarono
un’inevitabile svolta. Essa si verificò nel 1935 con
la
guerra d’Etiopia
e la proclamazione dell’impero, la cui corona fu
assunta da
Vittorio Emanuele III.
L’impresa colonialista comportò il formale
isolamento internazionale dell’Italia, che si legò
allora alla Germania nazista. Con questa, nel 1936,
intervenne nella
guerra civile spagnola
al fianco dei generali ribelli guidati da
Franco. Quindi,
siglato con Germania e Giappone il
patto Anticomintern
(cui aderì nel 1937), avallò le annessioni tedesche
dell’Austria e della Cecoslovacchia. In questo modo
l’Italia si rendeva corresponsabile della spirale di
eventi che portarono alla
seconda guerra mondiale.
Nel 1938 il fascismo, a imitazione del
nazismo, emanò le
leggi “per la difesa della razza” con le quali
gli ebrei italiani (circa 40.000 persone) venivano ridotti
al rango di cittadini di serie B.
3) L’espansione e il progressivo ideologismo
nell’alleanza con la Germania nazista.
La guerra e il crollo del fascismo
L’Italia entrò in guerra del tutto impreparata e
con l’illusione che il conflitto avesse breve
durata. Prima attaccò la Francia già messa in ginocchio
dalla Germania il 10 giugno 1940, poi il 28 ottobre
aggredì la Grecia (vedi
Campagna di Grecia),
ampliando così il teatro di guerra a tutto il
Mediterraneo. Dopo gli entusiasmi iniziali, gli italiani
conobbero e subirono privazioni e sconfitte su ogni
fronte.
Il 10 luglio 1943 gli anglo-americani sbarcarono in
Sicilia: il 25 luglio il re, nella speranza di disgiungere
in extremis le sue sorti da quelle del fascismo, destituì
Mussolini e lo fece arrestare. Il regime crollò
nell’esultanza popolare. L’8 settembre il
nuovo governo del maresciallo
Badoglio annunciò la
firma dell’armistizio
con gli angloamericani e – insieme con il re, la regina e
il principe Umberto,
nonché qualche esponente della corte – senza istruzioni
alle truppe sparse su decine di fronti fuggì da Roma: il
paese, divenuto teatro di guerra, precipitava nella
tragedia di una duplice occupazione e di un sanguinoso
conflitto civile.
La fine del fascismo, fu possibile soprattutto grazie al
movimento di opposizione al regime fascista :
l’antifascimo, contrassegnato dalla partecipazione di differenti forze
politiche e correnti ideologiche; sorto negli anni Venti,
si sviluppò e agì fino alla caduta definitiva del fascismo
al termine della
seconda guerra mondiale. La data d’inizio del movimento antifascista si
può far risalire all’assassinio del deputato
socialista
Giacomo Matteotti (10
giugno 1924), ucciso da sicari fascisti, cui seguirono le
leggi eccezionali del 1925-26 con le quali
Benito Mussolini abolì
le libertà politiche, costringendo gli oppositori alla
clandestinità o all’emigrazione. I membri dei
partiti di formazione democratica, socialista, comunista,
liberale e cattolica, quindi, continuarono la propria
azione in clandestinità in Italia e i fuoriusciti
all’estero costituirono gruppi e organizzazioni che
ebbero soprattutto Parigi come centro principale della
lotta antiregime.
Una delle prime autorevoli voci dell’antifascismo
fu quella di
Benedetto Croce,
liberale moderato, che fu uno dei pochi intellettuali non
allineati al regime che poterono continuare a operare e a
scrivere in Italia negli anni del fascismo. Molti
intellettuali e uomini politici antifascisti scelsero o
furono costretti a scegliere la via
dell’emigrazione. Alla metà degli anni Trenta
l’antifascismo italiano riuscì a stabilire nuovi
livelli di collaborazione: a questa svolta concorsero
alcuni eventi internazionali. Fu importante la politica
dei fronti popolari,
adottata nel 1935 dall’Internazionale
comunista, che indusse i comunisti italiani a stabilire
alleanze con le forze socialiste e democratiche per
fronteggiare l’avanzata dei fascismi europei, ormai
rafforzati dal successo dei
nazisti in Germania.
La piega presa dagli eventi internazionali prebellici mise
in crisi l’unità antifascista; i primi anni di
guerra dispersero ulteriormente i nuclei antifascisti che
si erano organizzati a Parigi. Ma all’inizio del
1943 furono proprio gli eventi bellici a porre le basi per
quell’efficace azione antifascista che era stata
impossibile fino ad allora. Il crescente scontento nella
popolazione italiana, alimentato dai rovesci militari in
Africa e in Russia, le divisioni all’interno dello
stesso blocco fascista, l’opposizione a Mussolini
che covava negli ambienti vicini al re, il ritorno della
conflittualità operaia negli scioperi del marzo 1943,
furono altrettanti fattori che favorirono la formazione di
un fronte antifascista relativamente omogeneo. Il Gran
Consiglio del Fascismo venne riconvocato il 24-25 luglio
1943, nella quale un ordine del giorno presentato da
Dino Grandi e
approvato a maggioranza invitò Mussolini alle dimissioni,
finendo col favorire le successive dimissioni e
l’arresto del duce, decisi dal re
Vittorio Emanuele III.
Possiamo quindi dire che i tratti caratteristici del
fascismo, che logicamente furono messi in luce in pieno
solo a partire dal 1926, furono: Nazionalismo e
centralismo esasperati, rivendicazione ideologica del
potere, la sopravvalutazione dello Stato, ordine
autoritario e gerarchico con un capo carismatico, la
mobilitazione e il coinvolgimento pilotato dalle masse, il
partito unico con il suo apparato organizzativo usurpante
funzioni statali, la magistrale padronanza dei moderni
mezzi di comunicazione allora in rapido sviluppo.
Una tendenza di natura totalitaria si può tutt’alpiù
vedere nell’intenzione di monopolizzare la vita politica e
di impadronirsi, per mezzo del partito e dei suoi
organismi collegati, di tutte le competenze sociali. A
causa dell’individualismo della maggior parte degli
italiani questa tendenza ebbe modo di realizzarsi solo in
parte; il confronto con il Nazionalsocialismo tedesco
mostra appunto che la realtà dell’Italia fascista ha
natura più autoritaria che totalitaria. Il fascismo
combattè sia il Liberalismo che il Socialismo; racchiudeva
in sé elementi tradizionali e rivoluzionari. Esso ha
inoltre realizzato un parziale egalitarismo, e una
modernizzazione della società italiana, e, grazie alla sua
politica sociale, una stabilità insolita per
l’Italia.
La presa del potere da parte di Mussolini fu facilitata
dalla condiscendenza della maggior parte delle élites
tradizionali, intimorite dalla rivoluzione rossa. Il Duce
si presentò ad esse come il garante dell’ordine; a brevi
periodi di radicali sovvertimenti (1922-1925) ne fece
seguire altri più lunghi di normalizzazione. Mussolini e
le altre forze portanti del suo governo erano fin
dall’inizio d’accordo sull’incondizionato rifiuto dei
principi liberali e pluralistici, che soli nello stato
moderno ammettono o creano spazio alle autonomie. Essi
partivano dall’idea che il Risorgimento avesse si creato
lo stato nazionale, ma che solo con l’esperienza della
prima guerra mondiale il popolo italiano fosse diventato
una nazione vera e propria, che ora trasformasse, per
mezzo del fascismo, il suo stato in senso nazionale.
Ritenevano inoltre che il fascismo doveva ripristinare la
superiorità della cultura italiana mediante la riscoperta
della tradizione “romana” e che l’Italia
doveva diventare uno stato contraddistinto da una simile
cultura nazionale e che perciò tutti i cittadini dovevano
sentirsi allo stesso modo e esclusivamente italiani.
Per l’Alto Adige si fecero largo le intenzionali ed
esagerate preoccupazioni per la sicurezza della nuova
frontiera del nord, ripetutamente definita inviolabile,
perché voluta da Dio, e perciò “sacra”. Le
conseguenze erano presto tirate: poiché il territorio
altoatesino veniva considerato originariamente e
sostanzialmente italiano e solo successivamente
artificiosamente e parzialmente germanizzato, si sosteneva
il diritto dell’Italia al ripristino del suo carattere
italiano, ossia all’italianizzazione della sua
popolazione.
Mentre nel resto d’Italia la dittatura si impose
completamente solo nel 1925, i provvedimenti restrittivi
contro i sudtirolesi e le altre minoranze (Sloveni,
Valdostani, Ladini) iniziarono già nel 1923. Per questo
motivo tutta l’era fascista si può definire in breve come
il periodo dell’oppressione linguistica e nazionale, la
cui esperienza ha impregnato l’immagine che due
generazioni di sudtirolesi si fecero dell’Italia.
Solo raramente l’oppressione fascista in Alto Adige fu
mitigata dal tipico umanitarismo italiano o dalla
tradizionale inefficienza degli apparati statali; al
contrario, proprio nelle “nuove provincie”,
emerse la capacità del fascismo di rendere più funzionante
di prima lo Stato e di saper attirare alla propria causa
molti italiani.
L’Italia di allora non espresse quelle qualità, come
individualismo e pluralismo, realismo e abilità nel
compromesso che hanno generalmente contraddistinto la
cultura politica, bensì si comportò in modo tipicamente
fascista: uniforme e conformistico, teatrale e pomposo.
Gli Italiani, non conoscendo il conservatore stile di
vita dei sudtirolesi, credettero di poterli bollare come
il relitto di una civiltà antiquata. Fondamentalmente
conservatore il Tirolo lo è sempre stato ed è diventato
provinciale a causa degli sviluppi del 1923/1943. Da un
lato l’intervento di tipo aggressivo –
colonialistico e dall’altro il progressivo rinchiudersi in
una specie di ghetto
hanno impedito la serena e franca convivenza delle due
culture una accanto all’altra.